La pandemia ha ampliato e amplificato le disuguaglianze sociali, le ha fatte emergere con più evidenza, assieme alle contraddizioni già presenti nella nostra società
In un altro mondo, in un tempo
che non esiste più, alcuni osservatori – tra cui l’ISTAT - raccontavano di un
Paese, il nostro, in cui la povertà assoluta stava, finalmente, diminuendo.
Dopo quattro anni di costante aumento si erano ridotte – per la prima volta –
il numero di quelle famiglie che non potevano permettersi le spese minime per
condurre una vita accettabile, 148 mila in meno rispetto al 2018, “pur
rimanendo su livelli molto superiori di a quelli precedenti la crisi del
2008-2009”.
Ma quella era l’Italia pre-Covid-19.
Oggi, a distanza di poche settimane dall’uscita di quei rapporti, tutto è
cambiato, completamente. Di crisi in crisi. E ancora non conosciamo nel dettaglio
i numeri e gli innumerevoli risvolti della “pandemia sociale” che si è
abbattuta in Italia – dovremmo dire prima di flagellare il resto mondo. Possiamo
però provare a tratteggiarne alcuni aspetti. A darci un quadro a tinte fosche
di quello che è accaduto e sta ancora avvenendo ci sono, dapprima, i numeri
relativi ai posti di lavoro persi. Secondo un rapporto presentato pochi
giorni fa dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico)
l’impatto sul mercato del lavoro del Covid-19 è stato immediato. In pochi mesi
i pochi progressi fatti negli ultimi dieci anni sono stati spazzati via in
poche ore: nei 37 paesi OCSE il tasso di disoccupazione è passato dal 5,3% di
gennaio all’8,4% di maggio. Tra i paesi più colpiti c’è il nostro, che in soli
tre mesi ha perso 500mila posti di lavoro. A subire maggiormente gli effetti
del Covid-19 sono stati, ovviamente, i lavoratori meno garantiti: i precari
della gig-economy, i più vulnerabili a basso salario che non possono fare lo
smart-working, quelli autonomi e a tempo parziale, le donne (soprattutto le
donne) e i giovani: basti pensare che la disoccupazione giovanile è passata dall’11,2%
di febbraio al 17,6% di maggio.
E non sono solo numeri.
Conosciamo tantissime storie, le abbiamo lette, sentite narrare, viste in
televisione, storie e vissuti di persone che prima del lockdown e
dell’interruzione di ogni attività economica non essenziale, già vivevano sulla
“soglia” e che ora sono precipitate in uno scenario “sospeso”, sorrette dagli
aiuti statali e dalle associazioni di volontariato che in questi mesi hanno
consegnato migliaia di “pacchi” alimentari a persone che non avevano mai visto
una mensa per i poveri.
D’altra parte, lo avevamo già
detto, anche tra le righe di questo magazine. La pandemia non solo ha ampliato
e amplificato le disuguaglianze sociali. Le ha fatte emergere con più
evidenza, assieme alle contradizioni già presenti nei gangli della nostra
società. Basti pensare, oggi, alla due grandi stagioni assenti dal
dibattito pubblico sulla futura “ricostruzione” del nostro Paese: l’infanzia
e la terza età. Anziani e bambini rappresentano più della metà della
popolazione ma non sono di certo forze produttive. Eppure, verrebbe da
chiedersi, a che servono le forze produttive se non sanno garantire pieni
diritti ai propri figli e ai propri vecchi? La risposta ci porterebbe lontano.
Intanto, lo abbiamo visto, la didattica a distanza ha lasciato indietro proprio
quelli che doveva portare avanti per primi, i figli dei più poveri. Non c'è
nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali, per dirla con Don
Milani. E gli anziani, principali vittime del Covid-19 dapprima “abbandonati”
senza protezioni in luoghi (che in molti pensavano) deputati a proteggerli e
poi, semplicemente, “dimenticati” (sia i vivi che i morti) oggi si trovano a
combattere una battaglia ancora più dura: secondo una ricerca Ipsos appena
conclusa è salita di 5 punti percentuali (dal 78 all’83%) la quota di coloro
che ritengono la solitudine un problema molto o abbastanza grave, e di 4 (dal
44 al 48%) quella di chi dichiara di sentirsi solo almeno sporadicamente.
Risultati di una società che ha scambiato la rarefazione dei rapporti
sociali per il distanziamento.
Perdita del lavoro, diseguaglianze
accresciute, isolamento sociale, solitudine. Ma la pandemia non ha lasciato
solo questo. Tra le macerie, per chi viveva già di stenti o di una economia
totalmente informale, si è affacciato lo spettro più tetro: la fame. La
mancanza di cibo, la paura di morire di stenti, che sembrava scomparsa nel
nostro Paese è tornata per tante persone, senza dimora, rom, anziani. Anche
questa è pandemia sociale. Entro la fine del 2020 a causa del Covid-19 altre
130 milioni di persone soffriranno di fame cronica, una cifra destinata a
crescere ulteriormente. È l’allarme lanciato dall’ultimo rapporto sullo Stato
della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo della FAO: quasi 690
milioni di persone hanno sofferto la fame nel 2019, ossia 10 milioni in più
rispetto al 2018 e poco meno di 60 milioni in più nell’arco di cinque anni.
Appare evidente che qualsiasi
tentativo strutturale di trasformazione dei nostri sistemi produttivi e di
welfare, seppur lautamente finanziato e sostenuto, ci auguriamo, dai fondi
della nostra amata Europa, se non si misurerà con li tema delle “fragilità
sociali” non si guadagnerà nemmeno lontanamente la definizione di riforma.
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