mercoledì 26 giugno 2019

Ciò che dicono di te è ciò che conta...

Siamo tutti immersi nella “reputation society” e per difenderci c’è un solo modo: esserne consapevoli. Non lasciamo che siano gli algoritmi oppure, ancora peggio, soggetti malintenzionati, a decidere quale informazione sarà usata contro di noi nella vita reale.

Partiamo da alcuni fatti. È nota a tutti ormai – non solo agli addetti ai lavori – la pratica secondo cui, prima di ogni colloquio, sia possibile che un datore di lavoro effettui delle ricerche mirate sui potenziali candidati a partire da ciò che compare su di loro su Google (voce del verbo “googolare”…) fino ad arrivare ai profili social personali. Sono stati molti i casi, anche nel nostro Paese, che hanno visto impiegati ricevere sanzioni disciplinari o perdere il proprio posto in seguito alla “scoperta” di comportamenti espressivi online non adeguati o lesivi dei principi aziendali (vi invito a scrivere su Google “licenziato per un post sui social” che riporta circa 880 mila risultati, per avere un’idea dell’entità del fenomeno). Questo avviene perché la trasformazione dei comportamenti individuali nelle comunicazioni online – inserita nella rivoluzione digitale – ha portato prepotentemente alla ribalta, modificandone il significato originario, il termine “reputazione”.

Dal latino reputo (“considerare”, “pensare”) questa parola ha assunto sempre di più una valenza sociologica, grazie alle migliaia (milioni) di informazioni che ognuno di noi pubblica su di sé attraverso i social media, per arrivare a definire la credibilità che un determinato soggetto possiede all’interno di un gruppo sociale. A comprendere la forza (propulsiva o distruttiva) della reputazione sul web sono state per prime le grandi aziende tecnologiche (Amazon e Trip Advisor in particolare): il potere delle recensioni di spostare clienti da un ristorante a un altro o di concentrare le vendite dei prodotti è ormai un classico dell’economia su vasta scala. E la potenza della nuova reputazione (la cosiddetta web reputation) è stata sperimentata – a proprie spese – anche dai grandi marchi: uno spot “sbagliato”, che offende qualcuno, può causare milioni di euro di danni. A titolo esemplificativo si veda il caso di Dolce & Gabbana che, a seguito di una campagna pubblicitaria giudicata razzista nei confronti del popolo cinese, hanno dovuto cancellare una manifestazione di moda a Shangai, con una perdita economica stimata in diversi milioni di euro.
Ma altre cose stanno accadendo, e velocemente, in tema di reputazione. La notizia è recente e di quelle che lasciano perplessi (sarà vero? si, lo è…): gli Stati Uniti avranno la facoltà, nel corso dell’iter necessario per la concessione del visto di ingresso nel Paese, di richiedere quali account social si posseggono da almeno cinque anni, al fine di controllare quanto pubblicato (ed eventualmente apporre un diniego all’ingresso). È un ulteriore salto di qualità in quella che viene definita come la reputation society, nella quale il tema della reputazione è divenuto – per usare un'altra parola piuttosto abusata oggigiorno – totalmente mainstream: non sono più soltanto gli operatori economici, gli attivisti, i politici, i giornalisti a dover prestare attenzione a ciò che scrivono, ma tutti noi che, in un modo o nell’altro e a qualunque titolo, utilizziamo il web, i social network e pubblichiamo contenuti personali.
TRE ELEMENTI PER LA REPUTATION SOCIETY
Per comprendere appieno il meccanismo di funzionamento della reputation society occorre far riferimento almeno a tre elementi, mettendoli in relazione tra loro. Il primo, agli addetti ai lavori, è noto da molti anni come “gabbia di vetro”: tutto ciò che pubblichiamo in rete, fosse anche all’interno di un gruppo chiuso o privato, diviene, di fatto, immediatamente pubblico. In altri termini, a fronte di una indubbia soddisfazione nell’utilizzo di certi strumenti espressivi (Facebook, Twitter, Whatsapp, ecc..) ciò che realmente abbiamo sacrificato è la nostra privacy, la nostra sfera più intima e privata. Il secondo elemento è altrettanto noto: il web non dimentica. Non serve a nulla “cancellare” ciò che si è postato su Twitter, Instagram o Facebook (magari in modo avventato, oppure per errore) perché, di certo, qualcun altro avrà già fatto uno screenshot, immortalando ciò che di imbarazzante avremmo voluto eliminare per sempre. Alcuni anni fa, Eric Schmidt, l’amministratore delegato di Google, ha dichiarato di essere consapevole che gli adolescenti di oggi che postano cose sciocche (normali per la loro età) sui social network, da adulti, avranno diversi problemi (perché non potranno cancellare ciò che hanno fatto o scritto), affermando però di non avere la minima idea di come risolvere questo problema. Allora molte grazie a Schmidt (e a Google). Il terzo elemento fondamentale per la costruzione del meccanismo della web reputation è costituito dal cosiddetto discorso d’odio (hate speech), ovvero quell’insieme di espressioni che mirano a dileggiare, offendere, de-umanizzare una persona – o un gruppo sociale – sulla base del colore della pelle, del genere, dell’orientamento sessuale, del credo religioso o politico. Vi è infatti una definizione sempre più accreditata di hate speech che si lega direttamente alla reputation, secondo la quale costituisce “odio” anche offendere la reputazione di un gruppo sociale sulla base di stereotipi, supposte caratteristiche razziali o religiose. È il caso dello spot di Dolce & Gabbana poc’anzi richiamato.
COSA FARE?
In conclusione, cosa resta da fare? In una sola parola: consapevolezza. Nel tempo dei social media tutto è pubblico, anche un messaggio inviato su una chat personale di Whatsapp. E non sarà solo ciò che noi abbiamo scritto a definire la nostra identità (online e offline), ma quello che, all’occorrenza, verrà estrapolato dal contesto e pubblicato successivamente. Non lasciamo che siano gli algoritmi oppure, ancora peggio, soggetti malintenzionati, a decidere quale informazione sarà usata contro di noi nella vita reale.
L'articolo è stato pubblicato da Rassegna.it e tratto da Il Magazine, il nuovo inserto realizzato da Rassegna Sindacale insieme alla Filcams Cgil che prende il posto di Diario Terziario, rinnovato nella grafica e nei contenuti. Il primo numero si può scaricare qui.

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