sabato 30 dicembre 2017

L’hate speech al tempo di Internet


La cronaca sempre più spesso riporta notizie di persone o gruppi verbalmente aggrediti in Rete per motivi di odio politico, religioso, razziale, di genere o di orientamento sessuale. A livello istituzionale e della società civile si moltiplicano le iniziative per arginare un fenomeno “antico” realizzato attraverso nuovi mezzi. Quali sono i tratti propri del discorso d’odio (hate speech) veicolato tramite Internet? Come lo si può definire, anche da un punto di vista giuridico? E come contrastarlo in modo efficace?
«Poche persone riescono ad essere felici senza odiare qualche altra persona, nazione o credo». 
Questa amara constatazione, attribuita a Bertrand Russell (1872-1970), filosofo gallese anticonformista e premio Nobel per la letteratura nel 1950, è oggi più che mai attuale se consideriamo la diffusione dell’hate speech (discorso d’odio) su Internet, ossia di frasi e discorsi che incitano apertamente all’intolleranza e alla violenza nei confronti
di una persona o di un gruppo e che possono sfociare in reazioni aggressive contro le vittime. Non è certo una questione nuova, ma il ricorso a Internet come mezzo per l’incitamento all’odio solleva domande inedite, imponendo la ricerca di risposte adeguate a livello giuridico e di mezzi per contrastare queste pratiche ispirate alla violenza.

In cosa consiste l’hate speech?
In via generale, si potrebbe definire l’hate speech un discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei loro confronti a causa della loro connotazione “razziale”, etnica, religiosa, culturale o di genere (Pino 2008; Van Dijk 2004). L’hate speech può assumere varie forme e va inteso in un senso ampio, fino a includere qualsiasi elemento in grado di configurare una comunicazione espressiva, anche non verbale, che veicoli un messaggio d’odio nei confronti di un singolo o di un gruppo specifico.

Secondo una condivisibile operazione di sintesi (Pino 2008), elaborata in riferimento a motivi etnici ma applicabile in genere all’hate speech, un elenco di elementi utili a definire il quadro entro cui contestualizzare un discorso d’odio – al di là delle implicazioni giuridiche – deve comprendere: l’insulto razzista rivolto direttamente a una o più persone identificate come appartenenti al gruppo “razziale” preso di mira; la propaganda di idee e di messaggi che rivendicano la superiorità di un gruppo “razzialmente” connotato rispetto ad altri, che diventano oggetto di disprezzo e odio; l’uso di argomenti pseudo-scientifici per propagandare idee e messaggi che rivendicano la superiorità di un gruppo “razzialmente” connotato; la negazione o il ridimensionamento di fatti o eventi storici di discriminazione o persecuzione a danno di gruppi connotati in senso razziale (ad esempio, la schiavitù negli Stati Uniti, l’Olocausto in Europa), qualora siano motivati non da fini di indagine storiografica ma per gettare discredito su una o più minoranze...

Puoi leggere l'articolo completo di Roberto Bortone e Francesca Cerquozzi, pubblicato su Aggiornamenti Sociali di dicembre 2017 cliccando qui

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