Che i social media abbiano contribuito a polarizzare oltremisura il dibattito pubblico è cosa nota. Eppure in troppi, tra commentatori, intellettuali, giornalisti, opinion maker e politici di varia compagine, nel momento in cui esternano il proprio pensiero, continuano a sottovalutare la portata di questo fenomeno, divenendo non solo attori del dibattito ma anche protagonisti – loro malgrado – del processo di polarizzazione (e semplificazione) delle idee in campo. Forse, quel che manca, è un approfondimento sul “come” questo processo avvenga e sui modi con cui inserirsi nel dibattito odierno con le proprie idee senza contribuire, quasi esclusivamente, alle dinamiche del pro e del contro.
Veniamo a Greta Thunberg, #GretaSi o #GretaNo? Il suo discorso alle Nazioni Unite ha consacrato l’adolescente svedese a simbolo mondiale della lotta all’inquinamento (e quindi al cambiamento climatico). Solo in Italia, un milione di giovani è sceso in piazza nelle scorse settimane. Ed eccoli qui in tanti, ripeto, ancora troppi, che pur ignorando i meccanismi comunicativi a cui prestano il fianco, non hanno scelto di fare l’unica cosa necessaria: esprimere la propria opinione senza rischiare di contribuire al processo di polarizzazione/semplificazione in atto, oppure, in alternativa, tacere. Il risultato è un discorso pubblico mediocre e disorientante. lo abbiamo detto, non è la prima volta, non sarà l’ultima. Simone (“non me sta bene che no”), Samir (il giovane non italiano che ha salvato i compagni di classe sul bus dirottato), solo per citare alcuni recenti episodi in cui il dibattito si è polarizzato su posizioni opposte ed estreme senza centrare l’obiettivo. Potrei citarne altri, in parte più dolorosi, come quello della cooperante Silvia Romano rapita in Kenia, oppure di Carola Rackete la capitana della Sea-Watch e nei quali misoginia e sessismo hanno inquinato, in modo tanto banale quanto definitivo, il dibattito. Il meccanismo è più o meno il seguente: non si parla di cambiamenti climatici, di inquinamento, di periferie romane, di seconde generazioni, dei problemi dell’Africa, dei migranti morti in mare e delle guerre/miserie da cui fuggono. Ovvero delle idee che questi giovani rappresentano. E il dato anagrafico (che andrebbe unito a un’oggettiva freschezza idealista e alle azioni concrete già messe in campo dai “giovani”), diviene quasi l’unico elemento che accomuna questi nomi (diremmo meglio simboli), sottovalutandone in modo drammatico tanto i contenuti quanto la questione “linguistica”, il modo in cui si parla di loro.
#fridaysforfuture ma… #haSolo16anni #GiornidiScuolaPersi
Torniamo a Greta e proviamo a fare un po’ di chiarezza. vi è in tutto il mondo una nutrita schiera di leader politici, personaggi pubblici, economisti, financo esponenti del mondo scientifico che le è dichiaratamente ostile. Non condividono le sue idee (o meglio, quelle di cui lei si fa portavoce) e la contrastano pubblicamente, come è giusto che sia. Fin qui tutto bene. I problemi iniziano quando una minoranza di “ostili”, molto rumorosa e ben consapevole dei processi di polarizzazione del dibattito pubblico digitale, sceglie di dileggiarla sul piano personale come via maestra per “screditare” l’intero movimento di pensiero che sostiene. Si va dal bieco insulto sul suo viso e la sindrome con cui convive, all’acconciatura che ricorderebbe quella delle giovani ragazze tedesche sotto il regime nazista. Accanto alla personalizzazione dell’insulto vengono riesumate patetiche teorie del complotto spacciate per “contro-informazione” (“ecco chi c’è dietro Greta” e affini). Il mix di questa roba è potente e, purtroppo, funziona. Almeno quanto basta per distogliere gli altri attori dell’informazione e del dibattito dai veri temi di cui parlare. Ed è qui che casca l’asino, direbbero in coro (inascoltate) mia nonna e la mia maestra delle elementari. Illustri esperti e autorevoli giornalisti si esprimono “a favore, ma non troppo”, tanto forti delle proprie idee e delle proprie chiavi di lettura quanto ignoranti del fatto che le modalità inquinate del dibattito a cui partecipano giungono a sostituirsi al dibattito stesso, inverando ciò che Marshall Mcluhan aveva già previsto da tempo (e suo malgrado auspicato, ma non gliene faremo delle colpe, almeno in questa sede): che il mezzo, ovvero le modalità con cui il dibattito si esprime, diviene esso stesso “messaggio”. A dibattito inquinato può corrispondere un messaggio altrettanto sporco. Allora per un illustre economista è giusto manifestare per il clima purché non si faccia durante la settimana lavorativa (tweet poi rimosso…). Per un docente di biochimica è giusto ascoltarla, ma seguirla è da “superficiali”. Per un direttore di giornale “l’ambientalismo è questione troppo seria per lasciarla a Greta” (titolo di giornale poi modificato). Altri hanno voluto evidenziare come, in definitiva, si tratti di uno scontro figli contro padri, diluendone idee e azioni in un brodo primordiale di rabbia intergenerazionale. E poi tanti, tantissimi, a calcare la mano sul fatto che certe battaglie si combattono con la competenza (per carità), ovvero allineati sui banchi di scuola e non nelle piazze. Insomma è tutto giusto, tutto bello ragazzi, “ma...”. Questo “ma” c’è sempre (e mi ricorda tanto un assodato “non sono razzista, ma...). Ah sì, certo: ho dimenticato di ricalcare la premessa fondamentale al paragrafo: queste espressioni che ho nominato, all’interno del dibattito, sono quelle dei “sostenitori” di Greta e delle sue idee, s’intenda. Che però usano le medesime categorie dei dileggiatori, le stesse chiavi linguistiche (che infatti vincono anche solo per il fatto di “esistere” e di orientare il dibattito). Non stupiamoci, allora, se ci ritroviamo su Facebook e Twitter a parlare di Asperger, reggiseni, acconciature, di “favole green” e grandi vecchi manipolatori dietro le quinte, di giovani incompetenti e giorni di scuola persi. Non stupiamoci più se, digitando su google “Greta Thunberg”, i primi dieci risultati che compaiono (su 125 milioni) sono, quasi tutti, negativi. Scandalizziamoci invece nel vedere che il tweet di hater71 (nome di fantasia) sia praticamente uguale a quello del filosofo o del leader di partito. Prevengo, in conclusione, una plausibile critica e un rischio connesso al mio ragionamento: non si tratta di comprimere il proprio spazio espressivo, appiattendosi tutti sulla medesima posizione, faremmo il gioco della polarizzazione in altro modo. Ci mancherebbe. Si tratta piuttosto di rispolverare, almeno un poco, l’idea di Habermas sull’agire comunicativo: un agire in cui entra fortemente in gioco la dimensione linguistica, elemento che distingue biologicamente l’uomo dalle restanti specie animali. In sintesi, oggi più di ieri il modo in cui ci esprimiamo è determinante: se usiamo alcune parole piuttosto che altre il nostro messaggio rischierà di rendere virali (bene che vada) le idee opposte, favorendo, alla lunga, l’inquinamento totale del dibattito pubblico.
L'articolo è stato pubblicato da Rassegna.it e tratto da Il Magazine, il nuovo inserto realizzato da Rassegna Sindacale insieme alla Filcams Cgil che prende il posto di Diario Terziario, rinnovato nella grafica e nei contenuti. Il numero di ottobre 2019 si può scaricare qui.
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