venerdì 29 maggio 2020

Se il lavoro si fa smart, ma anche no. Disuguaglianze e digital divide ai tempi della pandemia

Stiamo vivendo un periodo di emergenza nel quale tanti elementi costitutivi della rivoluzione digitale hanno disvelato in pochi giorni – talvolta in poche ore - il loro potenziale ancora sopito. I sistemi di videoconferenza usati dalle grandi aziende sono entrati nelle case di – quasi – ogni italiano. Tutto sembra essersi spostato online, musei, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli per bambini. Anche la televisione. L’accelerazione tecnologica di questi mesi si è resa necessaria, indispensabile, almeno per due motivi: nella fase-1, in piena pandemia, per consentire un lockdown totale e bloccare la diffusione del contagio da covid-19; nella fase-2 per rendere funzionale il suo contenimento. La corsa alla digitalizzazione, nella sua folle traiettoria ha spesso preso strade inaspettate e oggi risulta più chiaro quello che scriveva, qualche anno fa, il sociologo dei media Gert Lovink: “Una volta era Internet a cambiare il mondo. Oggi è il mondo a cambiare Internet”[1]. L’esigenza di continuare a comunicare, socializzare, produrre e studiare - “al tempo del coronavirus” - ha prepotentemente riadattato e trasformato strumenti pensati per altro. Soprattutto nel mondo del lavoro.

È fuor di dubbio che la tecnologia nelle ultime settimane sia entrata di forza anche nelle aziende meno avvezze alla trasformazione digitale; il fatto stesso che il recepimento dell’ordine di un cliente, la registrazione di una fattura o lo svolgimento di un colloquio siano attività svolte ora in modalità totalmente diverse rispetto a meno di due mesi addietro è indice, seppur con delle imposizioni governative, di un nuovo modo di pensare al lavoro. Lo smart working, versione anglofona del lavoro agile, ha interessato, letteralmente dal giorno alla notte, milioni di persone impiegate nel pubblico impiego e nel terziario.

Per mettere a fuoco la mutua trasformazione che abbiamo vissuto e, soprattutto, per avere qualche idea sul futuro che ci aspetta, facciamo un passo indietro e partiamo da qualche dato certo. Il significato di smart working, in italiano è, letteralmente, “lavoro intelligente”. Introdotto dal Jobs Act (L. n. 81/2017) come “lavoro agile”, la definizione di smart working non può prescindere da alcune caratteristiche che lo differenziano da altre modalità di esecuzione dell’attività lavorativa “a distanza” (dal telelavoro, ad esempio). Anzitutto il suo obiettivo dichiarato, ovvero quello di “incrementare la competitività” agevolando al contempo “la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”. E poi la sua cifra distintiva: quella di rendere una prestazione lavorativa in un arco temporale definito (orario di lavoro giornaliero) senza vincoli né di tempo, né di luogo. L’introduzione del lavoro agile nelle PMI e nella PA, secondo i risultati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano[2], ha registrato negli ultimi anni un percorso progressivo e lineare di crescita, con progetti strutturati nel 18% delle piccole e medie imprese e nel 16% delle pubbliche amministrazioni. Questo lo scenario pre-pandemia. Poi la corsa, a fari spenti, per evitare il blocco totale delle attività: in alcune regioni, nel pubblico impiego, sembra si sia arrivati a punte del 98% di lavoratori impiegati in modalità agile[3]

Qualche dato, relativo al livello di tecnologia di cui disponevamo nelle nostre case al momento dell’impatto con il lockdown, può aiutarci a capire meglio come siano andate, realmente, le cose. Non ci si riferisce certo alle difficoltà di lavorare da casa e, al contempo, seguire i bambini nello studio e nel gioco, ben rappresentate da alcuni meme che ancora ci fanno sorridere e che resteranno nella storia del Web. I problemi effettivi sono stati altri e hanno riguardato, soprattutto, chi tutte queste cose insieme non le ha proprio potute fare. Secondo l’Istat[4], nel periodo 2018-2019 il 38% delle famiglie italiane non aveva un computer in casa. In quelle con almeno un minore, la quota scende al 14%. Quelle in cui ogni componente ha a disposizione un computer o un tablet sono solo il 22%. Nel sud il 41,6% delle famiglie non possiede un computer e solo il 14% ha un pc o un tablet per ogni componente. Il 12,3% dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni – quasi il 20% nel meridione (470mila ragazzi) – non ha computer o tablet a casa. Senza tralasciare un altro aspetto – meno tecnologico – ovvero che più di un quarto degli italiani – il 41,9 per cento dei minori – vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo.

Quelli appena elencati sono aspetti determinanti che impattano direttamente sulla reale possibilità offerta dal lavoro agile di aumentare la competitività in ambito produttivo, conciliando i tempi di vita e di lavoro. Se non guardiamo anche l’altro lato della medaglia, il divide digitale che affligge il nostro Paese – e se non vi mettiamo mano – lasceremo che esso condizioni in modo pesante qualsiasi tentativo di ripresa. Lo abbiamo visto nel dibattito sulla colpevole diffusione del coronavirus nelle RSA e nelle case di riposo, con migliaia di anziani impossibilitati per mesi anche solamente ad effettuare una videochiamata ai propri cari (per l’assenza di strumenti adeguati). Lo stanno sperimentando, sulla propria pelle, gli alunni con famiglie meno abbienti alle spalle, espulsi tout court dal circuito scolastico digitalizzato (anche nel resto d’Europa: uno studio ha rilevato che due terzi dei bambini britannici non hanno partecipato alle lezioni online). È un anticipo dello scenario peggiore da immaginare per il nostro futuro: quello nel quale Internet smette di offrire le sue mirabolanti possibilità “a tutti” per incasellare i propri strumenti in una neonata classificazione sociale che vedrà aumentare le disuguaglianze anziché reprimerle.
L’emergenza, si sente dire spesso, non è un buon momento per discutere di ridistribuzione. Ma quale momento è migliore di questo, ora che la crisi rivela chiaramente le disuguaglianze? In questo sfondo, di un Internet per molti ma non per tutti, è giunto il momento di agire affinché il ricorso al lavoro agile, spinto oggi dai decreti emergenziali (i più digitalizzati direbbero “boostato”, ma tant’è), non torni nel suo tracciato lento e resti, con buona pace dei tempi di vita da conciliare, una parte residuale della nostra attività produttiva.  



[1] Geert Lovink, Ossessioni collettive. Critica dei social media, EGEA, 2016.
[2] Si veda: https://www.digital4.biz/hr/smart-working/smart-working-che-cos-e-a-cosa-serve-e-perche-e-cosi-importante-per-il-business
[3] Si veda: http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/25-03-2020/pa-lo-smart-working-nelle-regioni-ecco-i-primi-dati

L'articolo è tratto dal numero di maggio 2020 di Magazine, il mensile della CGIL Filcams realizzato insieme a Collettiva.

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