Stiamo vivendo un periodo di
emergenza nel quale tanti elementi costitutivi della rivoluzione digitale hanno
disvelato in pochi giorni – talvolta in poche ore - il loro potenziale ancora
sopito. I sistemi di videoconferenza usati dalle grandi aziende sono entrati
nelle case di – quasi – ogni italiano. Tutto sembra essersi spostato online,
musei, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli per bambini. Anche la
televisione. L’accelerazione tecnologica di questi mesi si è resa necessaria,
indispensabile, almeno per due motivi: nella fase-1, in piena pandemia, per consentire
un lockdown totale e bloccare la diffusione del contagio da covid-19;
nella fase-2 per rendere funzionale il suo contenimento. La corsa alla
digitalizzazione, nella sua folle traiettoria ha spesso preso strade inaspettate
e oggi risulta più chiaro quello che scriveva, qualche anno fa, il sociologo
dei media Gert Lovink: “Una volta era
Internet a cambiare il mondo. Oggi è il mondo a cambiare Internet”[1].
L’esigenza di continuare a comunicare,
socializzare, produrre e studiare - “al tempo del coronavirus” - ha prepotentemente
riadattato e trasformato strumenti pensati per altro. Soprattutto nel mondo del
lavoro.
È fuor di dubbio che la tecnologia
nelle ultime settimane sia entrata di forza anche nelle aziende meno avvezze
alla trasformazione digitale; il fatto stesso che il recepimento dell’ordine di
un cliente, la registrazione di una fattura o lo svolgimento di un colloquio siano
attività svolte ora in modalità totalmente diverse rispetto a meno di due mesi
addietro è indice, seppur con delle imposizioni governative, di un nuovo modo
di pensare al lavoro. Lo smart working, versione anglofona del
lavoro agile, ha interessato, letteralmente dal giorno alla notte, milioni di
persone impiegate nel pubblico impiego e nel terziario.
Per mettere a fuoco la mutua
trasformazione che abbiamo vissuto e, soprattutto, per avere qualche idea sul
futuro che ci aspetta, facciamo un passo indietro e partiamo da qualche dato
certo. Il significato di smart working, in italiano è, letteralmente,
“lavoro intelligente”. Introdotto dal Jobs Act (L. n. 81/2017) come “lavoro
agile”, la definizione di smart working non può prescindere da alcune
caratteristiche che lo differenziano da altre modalità di esecuzione
dell’attività lavorativa “a distanza” (dal telelavoro, ad esempio). Anzitutto
il suo obiettivo dichiarato, ovvero quello di “incrementare la competitività”
agevolando al contempo “la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
E poi la sua cifra distintiva: quella di rendere una prestazione
lavorativa in un arco temporale definito (orario di lavoro giornaliero) senza
vincoli né di tempo, né di luogo. L’introduzione del lavoro agile nelle PMI e
nella PA, secondo i risultati dell’Osservatorio Smart
Working del
Politecnico di Milano[2], ha registrato negli
ultimi anni un percorso progressivo e lineare di crescita, con progetti
strutturati nel 18% delle piccole e medie imprese e nel 16% delle pubbliche
amministrazioni. Questo lo scenario pre-pandemia. Poi la corsa, a fari spenti,
per evitare il blocco totale delle attività: in alcune regioni, nel pubblico
impiego, sembra si sia arrivati a punte del 98% di lavoratori impiegati in
modalità agile[3]
Qualche dato, relativo al livello
di tecnologia di cui disponevamo nelle nostre case al momento dell’impatto con
il lockdown, può aiutarci a capire meglio come siano andate, realmente,
le cose. Non ci si riferisce certo alle difficoltà di lavorare da casa e, al
contempo, seguire i bambini nello studio e nel gioco, ben rappresentate da
alcuni meme che ancora ci fanno sorridere e che resteranno nella storia
del Web. I problemi effettivi sono stati altri e hanno riguardato, soprattutto,
chi tutte queste cose insieme non le ha proprio potute fare. Secondo l’Istat[4], nel periodo 2018-2019 il
38% delle famiglie italiane non aveva un computer in casa. In quelle con almeno
un minore, la quota scende al 14%. Quelle in cui ogni componente ha a
disposizione un computer o un tablet sono solo il 22%. Nel sud il 41,6% delle
famiglie non possiede un computer e solo il 14% ha un pc o un tablet per ogni
componente. Il 12,3% dei ragazzi tra i 6 e i 17 anni – quasi il 20% nel
meridione (470mila ragazzi) – non ha computer o tablet a casa. Senza
tralasciare un altro aspetto – meno tecnologico – ovvero che più di un quarto
degli italiani – il 41,9 per cento dei minori – vivono in condizioni di
sovraffollamento abitativo.
Quelli appena elencati sono aspetti
determinanti che impattano direttamente sulla reale possibilità offerta dal
lavoro agile di aumentare la competitività in ambito produttivo, conciliando i
tempi di vita e di lavoro. Se non guardiamo anche l’altro lato della medaglia,
il divide digitale che affligge il nostro Paese – e se non vi mettiamo
mano – lasceremo che esso condizioni in modo pesante qualsiasi tentativo di
ripresa. Lo abbiamo visto nel dibattito sulla colpevole diffusione del coronavirus
nelle RSA e nelle case di riposo, con migliaia di anziani impossibilitati per
mesi anche solamente ad effettuare una videochiamata ai propri cari (per
l’assenza di strumenti adeguati). Lo stanno sperimentando, sulla propria pelle,
gli alunni con famiglie meno abbienti alle spalle, espulsi tout court
dal circuito scolastico digitalizzato (anche nel resto d’Europa: uno studio ha
rilevato che due terzi dei bambini britannici non hanno partecipato alle
lezioni online). È un anticipo dello scenario peggiore da immaginare per il
nostro futuro: quello nel quale Internet smette di offrire le sue mirabolanti
possibilità “a tutti” per incasellare i propri strumenti in una neonata
classificazione sociale che vedrà aumentare le disuguaglianze anziché
reprimerle.
L’emergenza, si sente dire spesso,
non è un buon momento per discutere di ridistribuzione. Ma quale momento è
migliore di questo, ora che la crisi rivela chiaramente le disuguaglianze? In
questo sfondo, di un Internet per molti ma non per tutti, è giunto il momento
di agire affinché il ricorso al lavoro agile, spinto oggi dai decreti
emergenziali (i più digitalizzati direbbero “boostato”, ma tant’è), non torni
nel suo tracciato lento e resti, con buona pace dei tempi di vita da
conciliare, una parte residuale della nostra attività produttiva.
[1] Geert Lovink, Ossessioni
collettive. Critica dei social media, EGEA, 2016.
[2] Si veda: https://www.digital4.biz/hr/smart-working/smart-working-che-cos-e-a-cosa-serve-e-perche-e-cosi-importante-per-il-business
[3] Si veda:
http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/25-03-2020/pa-lo-smart-working-nelle-regioni-ecco-i-primi-dati
L'articolo è tratto dal numero di maggio 2020 di Magazine, il mensile della CGIL Filcams realizzato insieme a Collettiva.
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