lunedì 1 giugno 2020

Pandemia, razzismo e rabbia sociale. Serve un vaccino anche per l’odio

Questa storia comincia un martedì di inizio gennaio, il “giorno zero” in cui le autorità cinesi confermano di aver individuato un nuovo virus che, qualche settimana dopo, prenderà il nome ufficiale di Covid-19. Da quel momento la Cina diventa un osservato speciale a livello internazionale. Il mondo guarda – a volte distrattamente - le immagini di Wuhan, una città di undici milioni di abitanti che viene “chiusa” come fosse un paesino disabitato di montagna. La storia sta subendo una di quelle accelerazioni epocali ma nel mondo ci si sente ancora tutti (o quasi) “immuni”. Il virus non è un nostro problema, anzi il problema è sempre lo stesso, l’«altro». Le aggressioni verbali e fisiche nei confronti di persone la cui unica colpa è quella di avere sembianze orientali si susseguono a ritmo serrato in tutto il mondo, tanto da spingere il segretario generale delle Nazioni Unite a lanciare l’allarme: l’hate speech (l’odio online) sta rapidamente convogliando in uno “tsunami di odio” contro gruppi di persone accusate di aver in qualche modo diffuso (cinesi, asiatici, rifugiati ecc.) o contribuito a creare, il virus (musulmani ed ebrei soprattutto). L’Italia in questo scenario deprimente non fa da meno. Mentre si moltiplicano le richieste di chiudere le frontiere (e i porti ai profughi dalla Libia, che tanto a chiudere non si sbaglia mai…) a mettere a fuoco meglio il concetto ci pensa il governatore di una regione del nord che in una trasmissione televisiva, in diretta, afferma: “abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi”. 

Perché cercare altre spiegazioni? Perché interrompere gli aperitivi, operare il distanziamento e pensare a soluzioni differenti da quella per cui “è colpa loro basta chiudere le frontiere con la Cina, ogni attività economica ad essa legata e, possibilmente, rimpatriare qualche centinaia di migliaia di persone oltre la grande muraglia?”. Semplicemente perché non funziona, i giorni seguenti lo dimostreranno ampiamente (e tragicamente). In un mondo globalizzato il virus circola molto più velocemente dei tweet dei razzisti. 

Ed ecco che, nel giro di due settimane, proprio l’Italia diviene il Paese europeo con il più alto numero di contagiati. Frontiere chiuse, voli annullati da e per il nostro Paese e, in definitiva, festa finita. Ora che i “cinesi” siamo noi, che fare? Chi è l’«altro» da incolpare? Un bel dilemma su cui sovranisti e haters nostrani devono aver passato qualche ora insonne. Ma non molto di più. In una situazione cangiante, in cui di ora in ora si susseguono novità e smentite, le risposte all’orgoglio ferito erano dietro l’angolo: sfruttare il disorientamento dell’opinione pubblica causato dall’alternarsi continuo di opinioni discordanti più o meno scientifiche di questo o quel virologo. Aggredire la già scarsa fiducia in organismi costituiti da freddi burocrati di cui ignoravamo felicemente l’esistenza come l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS). Cavalcare il fatto che anche i leaders delle più importanti potenze occidentali abbiano negato la pandemia senza battere ciglio (fino a suggerire di iniettarsi disinfettante). Insomma, “buttarla in caciara”, soffiando sul fuoco della paura e della rabbia sociale che monta per vedere che succede. 

Si assiste così al valzer dei cospirazionisti, strepitose piroette e giravolte mediatiche. Si passa da video di politici seduti sui mezzi pubblici secondo cui il virus è una semplice influenza a quelli in cui si dice “mi sono ammalato anche io, dovete stare attenti!”. 

La stessa persona che aveva sbeffeggiato il Governo per la decisione di chiudere le attività produttive tre giorni dopo twitta per insultare alcuni ministri colpevoli di non avere il coraggio di mandare l’esercito in strada a far rispettare il lockdown. Ecco la vera scoperta scientifica: se il virus va più veloce del razzismo, le balle no, quelle volano a rapidità supersonica. In questi mesi la Rete è divenuta, oltre che un baluardo della socialità mantenuta, anche una piazza di spaccio di quelle che un tempo avremmo chiamato fake news ma che oggi vogliono costringerci a riconsiderare come “verità alternative” . 

Esiste poi una ricerca internazionale che ai vari cospirazionisti nostrani non deve essere passata inosservata. Si tratta di uno studio realizzato da Ipsos , secondo il quale l’Italia risulta ai primi posti in classifica tra chi “crede” invece di “sapere”. Gli italiani sono tra le prime vittime al mondo della “dispercezione”, ovvero della percezione errata di un fatto a causa della sua narrazione tendenziosa o scorretta. Con un terreno così fertile sotto i piedi, in poche settimane ci siamo ritrovati dentro un frullatore informativo-mediatico senza precedenti, nel quale le notizie non hanno puntato alla verità ma alla viralità: insieme al virus si è diffusa così quella che l’OMS ha definito con il neologismo di infodemia (dall’inglese infodemic, a sua volta composto dai s. info(rmation), 'informazione', ed (epi)demic, 'epidemia'). È l’epidemia di informazioni che non rende più consapevoli e razionali di fronte alla realtà, ma anzi orienta i comportamenti a partire da percezioni falsate. 

Che in regimi differentemente democratici o esplicitamente autoritari le libertà di informazione e di ricerca scientifica siano negate dovrebbe affliggerci ma non dovrebbe stupirci più di tanto. Quello che dovrebbe, invece, sorprenderci è ciò che sta avvenendo nei processi informativi dei paesi democratici. E dire che mai avevamo visto tanto odio verso l’altro e tanta approssimazione mescolati insieme come in questa pandemia. Potrà sembrare esagerato ad alcuni e far sorridere qualcun altro, ma se ci pensiamo bene ognuno di noi conosce almeno una persona che sia caduta vittima di una branca dell’infodemia . Dalla Rete alle piazze un ulteriore tragico lascito di questa pandemia è che essa ha unito la rabbia sociale di migliaia di persone nella denuncia dell’unica grande cospirazione: quella dei mangiatori di animali vivi, dei complotti giudaico-massonici per un nuovo ordine mondiale, portata avanti dalle lobby delle case farmaceutiche e dai pro-vax avvelenati dal mercurio, tutti controllati dal 5G e chi più ne ha più ne metta. Come se tutto ciò non bastasse, l’omicidio di Jorge Floyd da parte della polizia di Minneapolis ci ha ricordato quanto pesa ancora nel mondo ciò che di più antiscientifico possa esistere: la discriminazione basata sul colore della pelle.

Sapremo trovare un vaccino che ci protegga da tutto questo?


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