Servono misure forti e urgenti per colmare alcuni ostacoli che oggi sembrano insormontabili. Altrimenti il mito della rete (e delle sue meraviglie democratiche) resterà soltanto un bello slogan
Come è stato scritto in più occasioni, anche tra le colonne
di questo Magazine, la pandemia da Covid-19 ha come disvelato molte delle
disuguaglianze insite nella nostra società. Questa volta, tuttavia, non ci soffermeremo
ad elencarle in modo “tradizionale”. Cercheremo, piuttosto, di analizzarle
attraverso un reagente molto particolare: il livello di accesso alla
trasformazione digitale da parte della popolazione, che vede il nostro Paese
fanalino di coda in Europa.
Partiamo da un dato generale: poche settimane fa la
Commissione Europea ha pubblicato i risultati dell’indice DESI 2020, uno studio
che misura il grado di digitalizzazione dell’economia degli stati membri
dell’UE. L’indice si basa su cinque componenti principali: connettività,
capitale umano, uso dei servizi Internet, integrazione delle tecnologie
digitali, servizi pubblici digitali. I dati, è bene ricordarlo, sono stati
rilevati prima dell’emergenza sanitaria, non tengono quindi conto del lockdown
e del potenziale “scatto in avanti” effettuato in quei mesi. Tuttavia, il nostro
Paese si collocava talmente agli ultimi posti, 25esimo su 28, perdendo
addirittura due posizioni rispetto al 2019, e riuscendo a fare meglio solo di
Romania, Grecia e Bulgaria, che la sostanza del nostro ragionamento non può
mutare.
Eppure, a fronte di questi dati, i mesi di lockdown, quelli del #iorestoacasa, sono stati percepiti come una “gabbia dorata” da una parte della popolazione, soprattutto da chi, evidentemente, all’interno della propria casa-bunker iper-digitalizzata, aveva a disposizione tutto il necessario per lavorare in modalità smart, comunicare con gli altri in videochat, ordinare la spesa a domicilio (disponibilità di uno spazio-casa adeguato, dispositivi elettronici di ultima generazione, smart-tv, tablet, computer portatili, connessioni a banda larga). Al di là degli innegabili vantaggi, anche in termini di tenuta economica del sistema, che lo smart working ha consentito a milioni di persone, è emersa una lettura (qualcuno direbbe narrativa) ricca e adulta della positività della trasformazione digitale: ricca perché ne hanno goduto appieno solo coloro hanno potuto permetterselo. Adulta per una ragione ancora più evidente: anziani e bambini ne sono stati tagliati fuori, più di quanto possiamo immaginare.
Delle difficoltà della DAD, la didattica a distanza, si è
discusso molto, soprattutto nelle ultime settimane. La retorica del “nativo
digitale” – i giovani si sa il digitale ce l’hanno nel DNA - ha sviato per
settimane, tempo prezioso e perso, i decisori politici sulla necessità di
intervenire in modo concreto ed effettivo per garantire l’accesso a tutti.
Eppure, i dati del “divario” c’erano già, a volerli leggere. Il rapporto
dell'ISTAT relativo al biennio 2018-2019 fotografava un'Italia ancora alle
prese con il processo di informatizzazione della popolazione ed evidenziava gli
ostacoli che avrebbero reso complicato lavorare e seguire le lezioni
all'interno delle mura domestiche. Un terzo delle famiglie italiane non aveva
in casa né un computer, né un tablet ed il dato peggiorava, passando a 4 su 10,
prendendo in esame le famiglie del Mezzogiorno. Anche restringendo l'ambito
alle famiglie in cui si trova almeno un minore, sebbene i dati indicassero che
oltre l’85% di tali nuclei possedeva almeno un computer/tablet, più della metà
dei ragazzi (età 6-17 anni) condivideva questi dispositivi con gli altri membri
della famiglia. Digitalizzazione non coincide con divertimento o con la
disponibilità di uno strumento, pur fondamentale, come i social media. Essere
giovani o avere un accesso costante ad Internet non garantisce quindi, di per
sé, la possibilità di seguire le lezioni a distanza. Dati conosciuti e questioni
cruciali note che, se dimenticate, contribuiscono a scavare un ulteriore
fossato nella nostra già scarsa digitalizzazione.
Vi è poi una barriera che pare insormontabile e che la
lezione della pandemia (lockdown compreso) ha messo davanti ai nostri
occhi: si tratta della dura realtà dei nostri anziani, in particolare dei più
anziani (gli ultraottantenni) che sono completamente “fuori” dalla rivoluzione
digitale. Se inserissimo in un grafico il dato della massima espansione della
fruizione digitale, rappresentata oggi dai giovani under 30 e quello relativo
al minimo utilizzo dei new media, raffigurato dagli over 75, avremmo i due
estremi di una rivoluzione: chi ne gode appieno e chi ne è totalmente escluso,
vecchio e nuovo millennio come in uno specchio. Secondo molti si tratta di una
congiuntura astrale che difficilmente si protrarrà ancora a lungo, poiché il gap
va riducendosi di anno in anno: è proprio la fascia di età compresa tra i 55 e
i 74 anni quella che risulta in costante aumento nell’uso di Internet in
generale e dei social network e che costituirà la fascia di popolazione anziana
del domani. Il dato degli Stati Uniti ci mostra bene cosa avverrà anche da noi
nei prossimi anni: il 43% degli over 65 ormai usa i social network. Nel 2006
era appena l’1%. Eppure, nel mentre di questa lenta trasformazione, una
generazione intera, forse due, restano tagliate fuori. Solamente il 16% delle
famiglie composte da soli anziani dichiara di aver accesso “corrente” ad
Internet. L’utilizzo dell’e-banking, dei sistemi di comunicazione digitale o dei
servizi della PA offerti ormai solamente attraverso l’utilizzo del cosiddetto
Speed, restano una chimera per chi è avanti negli anni. Le difficoltà di far
decollare la telemedicina nel nostro Paese mettono in luce di nuovo una
disuguaglianza che prima ancora di essere digitale o reddituale appare
culturale. Secondo il rapporto 2018-2019 dell’Osservatorio Innovazione Digitale
in Sanità del Politecnico di Milano tra i medici di medicina generale, solo il
4% del campione del rapporto utilizza soluzioni di teleassistenza e il 3% di
tele-visita e tele-salute. Un gap digitale che, ancora una volta, disvela un
vulnus democratico di livello costituzionale davvero preoccupante (bastasse
questo a tenere a bada coloro che parlano di voto elettronico nel nostro
Paese). Una discriminazione presente all’interno della nostra società che di
digitale ha poco, se non un ulteriore elemento per renderla visibile (sempre
per chi vuole vederla). Fino a 20 anni fa digitalizzare un nonno significava
spiegargli le funzionalità avanzate del telecomando, del condizionatore o del
forno a micro-onde. Oggi la realtà è drasticamente più complessa. Ma se
vogliamo “integrare” una fetta rilevante della popolazione lo sforzo di
spiegare ai nostri vecchi gli strumenti della digitalizzazione andrà fatto e
alla svelta.
Esiste, da ultimo, il tema delle competenze digitali che
sicuramente riguarda i giovani, sotto una duplice prospettiva. La prima è
quella più evidente, della competizione con la robotica e l’intelligenza
artificiale. A fronte di quei pochi che sapranno programmare un algoritmo o
“influenzare” il mercato con i social media, guadagnandosi così da vivere,
centinaia di migliaia di ragazzi si affacceranno in settori lavorativi trasformati,
senza le competenze per entrarne a farne parte. La seconda questione riguarda
la coscienza di ciò in cui si è immersi, quella che chiamiamo in modo
altisonante come digital literacy. Come ha recentemente raccontato al
grande pubblico delle Serie-TV il documentario prodotto da Netflix, “Social
dilemma”, non basta avere uno smartphone in una mano e un tablet nell’altra per
godere appieno dei vantaggi della trasformazione digitale. Servono
consapevolezza e competenza sugli strumenti che si stanno utilizzando. E anche
qui, i dati, sono inflessibili: nel 2019 i 2/3 degli adolescenti tra i 14 e i
17 anni che hanno utilizzato internet negli ultimi 3 mesi ha competente
digitali di base o di basso livello, solamente 1/3 vanta competenze di alto
livello.
Se non si interviene con misure decise per colmare questi gap
il mito dell’Internet (e delle sue meraviglie) democratico e per tutti resterà
solo un bello slogan a nascondere la realtà di una trasformazione digitale per
pochi, per chi l’ha capita e se la può permettere.
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