La cronaca sempre più spesso riporta notizie di persone o gruppi verbalmente aggrediti in Rete per motivi di odio politico, religioso, razziale, di genere o di orientamento sessuale. A livello istituzionale e della società civile si moltiplicano le iniziative per arginare un fenomeno “antico” realizzato attraverso nuovi mezzi. Quali sono i tratti propri del discorso d’odio (hate speech) veicolato tramite Internet? Come lo si può definire, anche da un punto di vista giuridico? E come contrastarlo in modo efficace?
«Poche persone riescono ad essere felici senza odiare qualche altra persona, nazione o credo».Questa amara constatazione, attribuita a Bertrand Russell (1872-1970), filosofo gallese anticonformista e premio Nobel per la letteratura nel 1950, è oggi più che mai attuale se consideriamo la diffusione dell’hate speech (discorso d’odio) su Internet, ossia di frasi e discorsi che incitano apertamente all’intolleranza e alla violenza nei confronti
di una persona o di un gruppo e che possono sfociare in reazioni aggressive contro le vittime. Non è certo una questione nuova, ma il ricorso a Internet come mezzo per l’incitamento all’odio solleva domande inedite, imponendo la ricerca di risposte adeguate a livello giuridico e di mezzi per contrastare queste pratiche ispirate alla violenza.
In cosa consiste l’hate speech?
In via generale, si potrebbe definire l’hate speech un discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei loro confronti a causa della loro connotazione “razziale”, etnica, religiosa, culturale o di genere (Pino 2008; Van Dijk 2004). L’hate speech può assumere varie forme e va inteso in un senso ampio, fino a includere qualsiasi elemento in grado di configurare una comunicazione espressiva, anche non verbale, che veicoli un messaggio d’odio nei confronti di un singolo o di un gruppo specifico.