giovedì 1 ottobre 2020

Barriere sociali, gap digitali

Servono misure forti e urgenti per colmare alcuni ostacoli che oggi sembrano insormontabili. Altrimenti il mito della rete (e delle sue meraviglie democratiche) resterà soltanto un bello slogan

Come è stato scritto in più occasioni, anche tra le colonne di questo Magazine, la pandemia da Covid-19 ha come disvelato molte delle disuguaglianze insite nella nostra società. Questa volta, tuttavia, non ci soffermeremo ad elencarle in modo “tradizionale”. Cercheremo, piuttosto, di analizzarle attraverso un reagente molto particolare: il livello di accesso alla trasformazione digitale da parte della popolazione, che vede il nostro Paese fanalino di coda in Europa.

Partiamo da un dato generale: poche settimane fa la Commissione Europea ha pubblicato i risultati dell’indice DESI 2020, uno studio che misura il grado di digitalizzazione dell’economia degli stati membri dell’UE. L’indice si basa su cinque componenti principali: connettività, capitale umano, uso dei servizi Internet, integrazione delle tecnologie digitali, servizi pubblici digitali. I dati, è bene ricordarlo, sono stati rilevati prima dell’emergenza sanitaria, non tengono quindi conto del lockdown e del potenziale “scatto in avanti” effettuato in quei mesi. Tuttavia, il nostro Paese si collocava talmente agli ultimi posti, 25esimo su 28, perdendo addirittura due posizioni rispetto al 2019, e riuscendo a fare meglio solo di Romania, Grecia e Bulgaria, che la sostanza del nostro ragionamento non può mutare.

venerdì 31 luglio 2020

Pandemia sociale, diseguaglianze e fragilità

La pandemia ha ampliato e amplificato le disuguaglianze sociali, le ha fatte emergere con più evidenza, assieme alle contraddizioni già presenti nella nostra società

In un altro mondo, in un tempo che non esiste più, alcuni osservatori – tra cui l’ISTAT - raccontavano di un Paese, il nostro, in cui la povertà assoluta stava, finalmente, diminuendo. Dopo quattro anni di costante aumento si erano ridotte – per la prima volta – il numero di quelle famiglie che non potevano permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile, 148 mila in meno rispetto al 2018, “pur rimanendo su livelli molto superiori di a quelli precedenti la crisi del 2008-2009”.

Ma quella era l’Italia pre-Covid-19. Oggi, a distanza di poche settimane dall’uscita di quei rapporti, tutto è cambiato, completamente. Di crisi in crisi. E ancora non conosciamo nel dettaglio i numeri e gli innumerevoli risvolti della “pandemia sociale” che si è abbattuta in Italia – dovremmo dire prima di flagellare il resto mondo. Possiamo però provare a tratteggiarne alcuni aspetti. A darci un quadro a tinte fosche di quello che è accaduto e sta ancora avvenendo ci sono, dapprima, i numeri relativi ai posti di lavoro persi. Secondo un rapporto presentato pochi giorni fa dall’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) l’impatto sul mercato del lavoro del Covid-19 è stato immediato. In pochi mesi i pochi progressi fatti negli ultimi dieci anni sono stati spazzati via in poche ore: nei 37 paesi OCSE il tasso di disoccupazione è passato dal 5,3% di gennaio all’8,4% di maggio. Tra i paesi più colpiti c’è il nostro, che in soli tre mesi ha perso 500mila posti di lavoro. A subire maggiormente gli effetti del Covid-19 sono stati, ovviamente, i lavoratori meno garantiti: i precari della gig-economy, i più vulnerabili a basso salario che non possono fare lo smart-working, quelli autonomi e a tempo parziale, le donne (soprattutto le donne) e i giovani: basti pensare che la disoccupazione giovanile è passata dall’11,2% di febbraio al 17,6% di maggio.

lunedì 1 giugno 2020

Pandemia, razzismo e rabbia sociale. Serve un vaccino anche per l’odio

Questa storia comincia un martedì di inizio gennaio, il “giorno zero” in cui le autorità cinesi confermano di aver individuato un nuovo virus che, qualche settimana dopo, prenderà il nome ufficiale di Covid-19. Da quel momento la Cina diventa un osservato speciale a livello internazionale. Il mondo guarda – a volte distrattamente - le immagini di Wuhan, una città di undici milioni di abitanti che viene “chiusa” come fosse un paesino disabitato di montagna. La storia sta subendo una di quelle accelerazioni epocali ma nel mondo ci si sente ancora tutti (o quasi) “immuni”. Il virus non è un nostro problema, anzi il problema è sempre lo stesso, l’«altro». Le aggressioni verbali e fisiche nei confronti di persone la cui unica colpa è quella di avere sembianze orientali si susseguono a ritmo serrato in tutto il mondo, tanto da spingere il segretario generale delle Nazioni Unite a lanciare l’allarme: l’hate speech (l’odio online) sta rapidamente convogliando in uno “tsunami di odio” contro gruppi di persone accusate di aver in qualche modo diffuso (cinesi, asiatici, rifugiati ecc.) o contribuito a creare, il virus (musulmani ed ebrei soprattutto). L’Italia in questo scenario deprimente non fa da meno. Mentre si moltiplicano le richieste di chiudere le frontiere (e i porti ai profughi dalla Libia, che tanto a chiudere non si sbaglia mai…) a mettere a fuoco meglio il concetto ci pensa il governatore di una regione del nord che in una trasmissione televisiva, in diretta, afferma: “abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi”. 

Perché cercare altre spiegazioni? Perché interrompere gli aperitivi, operare il distanziamento e pensare a soluzioni differenti da quella per cui “è colpa loro basta chiudere le frontiere con la Cina, ogni attività economica ad essa legata e, possibilmente, rimpatriare qualche centinaia di migliaia di persone oltre la grande muraglia?”. Semplicemente perché non funziona, i giorni seguenti lo dimostreranno ampiamente (e tragicamente). In un mondo globalizzato il virus circola molto più velocemente dei tweet dei razzisti. 

venerdì 29 maggio 2020

Se il lavoro si fa smart, ma anche no. Disuguaglianze e digital divide ai tempi della pandemia

Stiamo vivendo un periodo di emergenza nel quale tanti elementi costitutivi della rivoluzione digitale hanno disvelato in pochi giorni – talvolta in poche ore - il loro potenziale ancora sopito. I sistemi di videoconferenza usati dalle grandi aziende sono entrati nelle case di – quasi – ogni italiano. Tutto sembra essersi spostato online, musei, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli per bambini. Anche la televisione. L’accelerazione tecnologica di questi mesi si è resa necessaria, indispensabile, almeno per due motivi: nella fase-1, in piena pandemia, per consentire un lockdown totale e bloccare la diffusione del contagio da covid-19; nella fase-2 per rendere funzionale il suo contenimento. La corsa alla digitalizzazione, nella sua folle traiettoria ha spesso preso strade inaspettate e oggi risulta più chiaro quello che scriveva, qualche anno fa, il sociologo dei media Gert Lovink: “Una volta era Internet a cambiare il mondo. Oggi è il mondo a cambiare Internet”[1]. L’esigenza di continuare a comunicare, socializzare, produrre e studiare - “al tempo del coronavirus” - ha prepotentemente riadattato e trasformato strumenti pensati per altro. Soprattutto nel mondo del lavoro.

sabato 29 febbraio 2020

Cyberstalking, revenge porn, doxxing, sexting… ma di che parliamo? L’odio online contro le donne è pericoloso perché “banale”

 Nel Web odio e violenza verbale nei confronti di migranti, rom, persone LGBT sono all’ordine del giorno. Eppure, colore della pelle, religione, condizione socio-economica, orientamento sessuale, sembrano sempre più lasciare il campo quando si tratta di “odiare” una donna. Il genere (femminile) nel Web, quando si parla di odio, ha il sopravvento su tutto. Le donne, li, nella Rete, non sono le benvenute. A priori. Violenza e minacce on-line sono fenomeni sperimentati e riconosciuti da milioni di donne. Ancora di più, per quelle donne che appartengono ad una minoranza etnica o religiosa, per le donne con disabilità, per quelle con un altro orientamento sessuale. Quello a cui stiamo assistendo, è la creazione di un territorio on-line “ostile” contro le donne, nel quale diffamazione, intimidazione e disumanizzazione rischiano di essere accettate o considerate come “elemento strutturale” dell’ambiente Internet.

Alcuni studi disponibili suggeriscono che le donne sono colpite da forme “virtuali” di violenza in misura sproporzionata rispetto agli uomini. Tutto questo avviene mentre l’accesso libero ad Internet è ormai considerato una necessità per il raggiungimento del benessere economico e sempre più come un diritto fondamentale. Eppure, il dibattito sulla necessità di garantire che questo spazio pubblico digitale sia un luogo sicuro e di emancipazione per tutti, comprese le donne, appare scarso e poco documentato.

Al di là degli ambiti (politica, famiglia, mondo del lavoro) la violenza on-line contro le donne assume caratteri e fenomeni che appaiono tanto trasversali quanto poco conosciuti nei loro aspetti specifici. Tra di essi, il più noto, è certamente il cyberstalking. Lo stalking (dall’inglese to stalk, camminare in agguato), come è noto, comporta episodi ripetuti che minano il senso di sicurezza della vittima e provocano angoscia, paura o allarme. La versione cyber dello stalking contempla l’invio ripetuto nel tempo di e-mail, sms o messaggi istantanei offensivi o minacciosi, la pubblicazione di commenti offensivi su Internet e la condivisione di fotografie o video intimi su Internet o tramite telefono cellulare.