Siamo tutti immersi nella “reputation society”
e per difenderci c’è un solo modo: esserne
consapevoli. Non lasciamo che siano gli algoritmi
oppure, ancora peggio, soggetti malintenzionati,
a decidere quale informazione sarà usata
contro di noi nella vita reale.
Partiamo da alcuni fatti. È nota a tutti ormai – non solo agli addetti ai lavori – la pratica secondo cui, prima di ogni colloquio, sia possibile che un datore di lavoro effettui delle ricerche mirate sui potenziali candidati a partire da ciò che compare su di loro su Google (voce del verbo “googolare”…) fino ad arrivare ai profili social personali. Sono stati molti i casi, anche nel nostro Paese, che hanno visto impiegati ricevere sanzioni disciplinari o perdere il proprio posto in seguito alla “scoperta” di comportamenti espressivi online non adeguati o lesivi dei principi aziendali (vi invito a scrivere su Google “licenziato per un post sui social” che riporta circa 880 mila risultati, per avere un’idea dell’entità del fenomeno). Questo avviene perché la trasformazione dei comportamenti individuali nelle comunicazioni online – inserita nella rivoluzione digitale – ha portato prepotentemente alla ribalta, modificandone il significato originario, il termine “reputazione”.